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MAKE NEWS: fare (davvero) informazione.

“In molti paesi è difficile scrivere quello che si vuole. Senza subire conseguenze”: E’ su questa seconda parte della frase che si sofferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, nell’intervenire all’incontro “Make news, nel cuore dell’informazione”. Al tavolo con lui Vittorio di Trapani, Usigrai, Khoulud Massalha, giornalista palestinese e presidente dell’Ilam Center,  il centro per la libertà di informazione palestinese e Anna Meli, direttrice comunicazione di COSPE.

Un evento nell’evento, questo panel, perché: “Make news nasce – come ricorda Anna Meli – come format che viene via via riproposto sotto varie declinazioni, per parlare di informazione libera e corretta”.  Il primo evento, ideato da Daniela Morozzi e Valerio Cataldi, giornalista Rai,  si è tenuto a dicembre a Firenze come risposta a i molti ostacoli, se non censura, che il giornalista ha vuto in rai per mettere in onda il documentario “Prigionieri sull’isola” a testimonianza di ciò che accadeva sull’isola di Lesbo.  Sulla scia di quell’evento, partecipato da molti giornalisti, Make news è diventato un vero e proprio marchio per diffondere in Italia il dibattito e dare valore all’informazione di qualità.

E se da un lato sono proprio i giornalisti, responsabili del proprio lavoro, a doverla produrre “ Ad esempio con l’utilizzo di un linguaggio corretto, dice Vittorio di Trapani, soprattutto nell’ambito della migrazione, e realizzare una costruzione fondamentale per tornare al giusto ordine in un mondo ribaltato in cui le vittime diventano erroneamente i carnefici.”

Ma le minacce sono spesso e volentieri fuori dalla responsabilità della categoria, Di Trapani parla della criminalità organizzata che perseguita i giornalisti, non solo  in Italia, non solo al sud.  E di violenza subita fino alla morte parla appunto anche Riccardo Noury, ricordando Dafne Caruana Galizia, la giornalista uccisa da un’autobomba il 16 ottobre 2017 a Malta. “Caruana Galizia si occupava di cose poco conosciute fuori da Malta: la durezza del governo verso i migranti che, però, sì scontra con la facilità con cui si concedono passaporto a chi porta ricchezza al Paese, seppur illegalmente. Così, “nel cuore di questo Mediterraneo c’è un posto in cui chi fa giornalismo d’inchiesta muore ammazzato”.

Sulla violenza il filo rosso corre fino in Palestina: “I problemi sono molteplici per i giornalisti palestinesi – Khoulud Massalha- è  difficile ottenere la cosiddetta GPO card che permette l’accesso a molte conferenze ed eventi, l’assunzione nei media esistenti è limitato dal controllo israeliano e l’accesso stesso alle informazioni è parziale. Molte, inoltre le aggressioni violente che subiamo quotidianamente. E in fondo anche per noi si può parlare di mafia o di sistema mafioso se guardiamo la propaganda schiacciante del governo israeliano che censura tutto ciò che non gli piace”.

Esiste una ricetta, un’idea, una soluzione? Ci prova Noury: “Tutti devono essere militanti, perfino i giornalisti, schierarsi a tutti costi e dovremmo riuscire ad andare al di là del muro, verso ciò che non conosciamo. Farsi ponte.” Tuttavia, una buona notizia: “La buona informazione esiste – chiude Noury –  Articolo21.org ed Usigrai sono esempi di attivismo per i diritti umani nel giornalismo”.

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