Il festival “Mediterraneo DownTown” continua con un importante momento di riflessione tra società civile e istituzioni sui temi della tratta e dello sfruttamento lavorativo, per arrivare alla firma di un “Protocollo d’intesa contro lo sfruttamento lavorativo e la tutela delle vittime”, che il Comune di Prato e la Procura della Repubblica hanno stilato in questi mesi.
Come sottolineato da Simone Faggi, vicesindaco del Comune di Prato, moderatore dell’incontro, “Il protocollo, presentato e siglato stamattina, segnala la presenza, nel territorio di Prato, di una forte collaborazione tra amministrazione e Comune, che incide molto sulla vita dei cittadini. Si tratta, infatti, di un protocollo che cerca di riportare al centro del discorso pubblico la tutela dei lavoratori e dei più vulnerabili, oggi rappresentati, nel territorio pratese quanto meno, soprattutto da immigrati regolari e irregolari, richiedenti asilo, ma anche titolari di protezione umanitaria e internazionale”.
Sul banco degli imputati molte aziende cinesi, ma non solo. “Le istituzioni pratesi non vogliono assolutamente puntare il dito contro nessuno: nella nostra città – ha affermato Faggi – chi porta lavoro dignitoso è benvenuto, chi vuole guadagnare nell’irregolarità no. E non bisogna né esagerare, parlando di un ritorno alla schiavitù, né minimizzare: ci troviamo di fronte a forme di sfruttamento lavorativo evidenti e chiare, sebbene non ci siano persone in catene o costrette con la forza”.
Per stilare il protocollo d’intesa le istituzioni hanno fatto riferimento al progetto S.A.T.I.S (www.satistoscana.org) . Delle cooperative CAT e SAR, che ha analizzato e studiato il fenomeno della tratta e dello sfruttamento lavorativo, sia introducendo unità di strada per contrastare la prostituzione e aiutare le vittime che portando avanti una ricerca sullo sfruttamento lavorativo dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e umanitaria, reclutati per lavorare illegalmente nel territorio dopo la diminuzione dell’arrivo di manodopera a basso costo direttamente dalla Cina.
Serena Mordini, coordinatrice del progetto S.A.T.I.S. , ha voluto sottolineare come il progetto anti tratta regionale si occupa di tutti i tipi di tratta, non solo quella sessuale, che spesso viene considerata la più comune, e lo fa con varie linee di intervento: emersione (attraverso un numero verde regionale e le unità di strada), identificazione, prima assistenza, fornitura di servizi di mediazione e di consulenza specializzata, inserimento delle vittime in programmi di protezione sociale. “Da quest’anno, inoltre – ha raccontato Mordini – è attiva un’operazione anti-tratta interegionale che coinvolge Toscana, Lazio, Marche e Sicilia e che mira a valorizzare il comportamento etico delle aziende che ospitano vittime di tratta come tirocinanti e lavoratori”. Andrea Cagioni, ricercatore coop. CAT sulle Forme di sfruttamento lavorativo a Prato e autore di una ricerca scaricabile sul sito coopcat.org/cultura/ricerche, ha raccontato come “a livello nazionale il sistema antitratta è molto strutturato per quel che riguarda lo sfruttamento sessuale, ma molto meno per quelle che sono le forme di sfruttamento lavorativo, di cui invece ci siamo occupati con questa ricerca. In particolare, ci siamo concentrati sul settore dell’agricoltura e dell’industria tessile intervistando esperti, testimoni privilegiati e un campione di lavoratori migranti e richiedenti asilo”.
Dalle interviste è venuto fuori che la maggioranza dei lavoratori irregolari presenti sul territorio pratese provengono soprattutto dal Bangladesh e dall’Africa subsahariana, e che è possibile escludere l’esistenza di un vero e proprio sistema organizzato di reclutamento di lavoratori a basso costo da parte delle aziende. Sembra evidente, infatti, che più che tramite caporalato, i lavoratori arrivino alle aziende attraverso conoscenti e connazionali, non solo quando non hanno un permesso di soggiorno regolare, ma anche e soprattutto quando hanno un permesso di richiesta asilo. “Le testimonianze raccolte – ha raccontato Cagioni – parlano di lavoro in nero, di contratti part-time a fronte di giornate lavorative di 9-14 ore, salari molto bassi e di condizioni di lavoro insostenibili. Non si sono evidenziati abusi, violenze, o minacce da parte dei datori di lavoro, tuttavia è chiaro sia a noi che agli stessi lavoratori sfruttati che vi è una forte asimmetria di potere, fondata sulla vulnerabilità e sullo stato di necessità di lavorare del richiedente asilo, ma anche del titolare di protezione umanitaria o internazionale, che spesso non trova alternative allo sfruttamento”.
La ricerca ha permesso anche di realizzare un volantino multilingue sulla normativa nazionale a protezione e sostegno delle vittime della tratta lavorativa, distribuito nei Cas di Prato e in alcuni quartieri della città, per informare le possibili vittime di sfruttamento dei loro diritti.
E proprio sugli strumenti legislativi di protezione e tutela dei lavoratori sfruttati che si è concentrato l’intervento di Federico Oliveri, ricercatore dell’Università di Pisa e autore della ricerca “I permessi di soggiorno come strumenti di tutela dello sfruttamento? Criticità e prospettive”. “Nonostante esista la possibilità di dare un permesso di protezione sociale nei casi di sfruttamento lavorativo grave (ex art.18 ed ex art. 22 del TU sull’immigrazione) – ha spiegato – questi vengono concessi in rarissimi casi. Per questo mi sono chiesto qual è il rapporto tra la concessione di questi permessi e i potenziali interessati, scoprendo come a fronte di un numero molto elevato di immigrati irregolari presenti sul territorio, che si presume lavorino in nero e probabilmente in condizioni di sfruttamento, sono pochissimi i permessi (nell’ordine delle decine) di soggiorno sociale che ogni anno vengono rilasciati in tutta Italia”.
Evidentemente il sistema di rilevamento e protezione dei lavoratori sfruttati presenta delle criticità: prima fra tutte la carenza di informazioni. Le persone che ne potrebbero beneficiare, infatti, non sempre ne conoscono l’esistenza e il funzionamento, e soprattutto spesso temono di rivolgersi alle istituzioni inquirenti se si trovano in una situazione di irregolarità non solo dal punto di vista lavorativo ma anche proprio giuridico, dato che in Italia è ancora vigente anche il reato di clandestinità. Inoltre, la normativa si occupa solo degli immigrati senza permesso di soggiorno, mentre oggi i dati mostrano come i lavoratori sfruttati sono anche e soprattutto quelli che hanno già un permesso di soggiorno.
“Al primo punto – ha specificato Cagioni – si potrebbe rispondere come fa il protocollo proposto oggi: permettendo a un ente pubblico come il Comune di fare da filtro tra il lavoratore sfruttato che fa la segnalazione e la procura che poi fa i vari controlli e si impegna a fornire, se necessario, un permesso di soggiorno al lavoratore”. Ma c’è un altro punto importante: chi riesce a usufruire di un permesso di soggiorno sociale non ha diritto ad alcun tipo di sostegno, e quindi perde il lavoro irregolare, ma non necessariamente riesce a trovarne un altro dignitoso e rischia di tornare al lavoro nero per garantirsi un reddito.
“La nuova legge sul caporalato ha introdotto, per la prima volta nel nostro ordinamento, la possibilità di denunciare un datore di lavoro per sfruttamento, anche senza la preseza di intermediazione, violenza o minaccia – ha concluso Cagioni – Basta lo stato di necessità del lavoratore a stabilire una violenza psicologica, quindi si tratta di un importante passo avanti contro lo sfruttamento del lavoro irregolare. Tuttavia forse perché funzioni dovremmo cominciare a pensare in maniera più attenta anche a chi si trovava all’apice della catena dello sfruttamento lavorativo, perché molto spesso vi troviamo aziende italiane e grande distribuzione”.
Roberto Gerali, animatore della Toscana del servizio anti-tratta dell’ass. Papa Giovanni XXIII, si è inserito nel discorso specificando come “è fondamentale diffondere le buone pratiche che alcuni Comuni toscani come Firenze stanno sviluppando per interrompere la catena della domanda di prostitute per ottenere dei veri risultati, multando i clienti e allineandosi a quanto accade in molti altri Paesi europei come l’Irlanda ad esempio”.
“Tutti questi fenomeni vanno contrastati da un punto di vista penale e civile – ha aggiunto durante il dibattito Maria Laura Simonetti, prefetto di Prato – ma è soprattutto lavorando sul tessuto sociale, sulla cultura, con l’impegno di tutti. E’ fondamentale che ci sia coesione tra le istituzioni e le associazioni e che si crei una rete per aiutare i più deboli”. E sulla stessa linea è intervenuto l’assessore regionale alla Presidenza, Vittorio Bugli, che ha espresso soddisfazione per il protocollo presentato e volontà di diffondere questa buona pratica per la lotta allo sfruttamento dei lavoratori anche nelle altre province toscane. “Quando si fanno buone pratiche bisogna estenderle sul territorio e in questo la Toscana è sempre molto attiva – ha specificato Bugli – Inoltre non bisogna mai nascondersi dietro la scusa che ci sono poche risorse. Per arrivare a scovare i casi di sfruttamento lavorativo non possiamo aspettare che siano i lavoratori a denunciare, ma dobbiamo incentivare i controlli. E forse è arrivato il momento di porsi il problema di come far uscire dall’irregolarità quelle 600 mila persone che si trovano sul territorio italiano e che anche per questo non possono avere un lavoro regolare”.
Giuseppe Nicolosi, procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Prato, ha aggiunto una breve riflessione sul protocollo, che non è altro che la messa nero su bianco di un lavoro che Procura e Comune di Prato collaborano già da circa un anno e mezzo. ”Come è stato già detto, il primo problema contro cui lottare è il diffuso senso di omertà da parte dei lavoratori sfruttati. Per questo l’obiettivo del protocollo è quello di creare un ponte tra le vittime e chi poi dovrà gestire le situazioni che si vengono a rappresentare e di questo siamo molto soddisfatti”. “I temi del lavoro e dell’immigrazione sono di un’attualità straordinaria non solo a Prato, ma in tutta Europa, anche se Prato è un laboratorio particolare proprio per le sue caratteristiche economiche e per l’alto numero di stranieri presenti- ha concluso il sostituto procuratore di Prato Lorenzo Gestri – Come Procura ci chiediamo spesso perché i lavoratori stranieri sfruttati non vengono mai a bussare alle nostre porte. Purtroppo la risposta è quella che ci siamo dati oggi: il lavoro in nero molte volte è l’unica fonte di reddito per lo straniero, regolare o irregolare che sia. Abbiamo, tuttavia, una legislazione che oggi ci permette di punire gli sfruttatori e aiutare concretamente gli sfruttati, ma senza un ufficio sul territorio che sia più fruibile della stazione di polizia. E’ a questo che servono questi protocolli.