Dall’Egitto alla Serbia e all’Afghanistan, passando per l’Italia una carrellata di esperienze di movimenti femministi nel mediterraneo è stato al centro dell’incontro De Genere, presentato dalla giornalista Giulia Bosetti, inviata e autrice delle inchieste di “Presadiretta” di Rai3.
Ha aperto la discussione Malai Joya, attivista ed ex membro del Parlamento afghano, definita dalla BBC come la donna più coraggiosa dell’Afganistan. Attraverso una carrellata di foto, ci mostra l’orrore dei soprusi subiti quotidianamente dalle sue connazionali, costrette a vivere in quello che definisce come “the worst place in the world for women”. Malalai riesa in poche parole a farci capire lo strazio di una giovane donna che lotta per vedere il proprio paese libero dalla violenza. Per lei femminismo significa “diritti uguali per donne e uomini”, ma in Afghanistan, dominato dai fondamentalismi, le donne non solo non hanno diritti, ma non vivono neppure una vita che si possa definire “umana”. Ci mostra il caso di Farkhunda, 27 anni, vittima di violenza domestica: i suoi torturatori hanno subito un processo, ma adesso sono di nuovo liberi; oppure la storia di Zarina, a cui il marito ha tagliato le orecchie lo scorso febbraio: sono 3000 i casi di violenza contro le donne, solo negli ultimi 6 mesi.
Malalai denuncia la mancanza di istruzione come uno dei fattori principali che impediscono alle donne di avere una propria identità, di fronte ad un islam politico che non riconosce loro alcun valore. Denuncia poi i signori della guerra che dominano le istituzioni politiche dell’Afghanistan, dove il parlamento, non democratico, vede una presenza solo simbolica di donne, che non hanno alcun peso o influenza. La sola speranza viene dal popolo, un popolo oggi non ascoltato ma che deve continuare a protestare e a far sentire la propria voce. Malalai è autrice del libro “A Woman among Warlords” che ricorda la sua esperienza di deputata che ha denunciato con forza la corruzione del parlamento e la presenza di Signori della Guerra tra le istituzioni. Per questo è stata cacciata dalla Camera dei Deputati, per questo è ancora costretta a vivere in clandestinità, lontano dalla sua famiglia e da suo figlio che non vede da un anno.
Nada Nashat, attivista egiziana, avvocatessa, responsabile adovcacy di Cewla (Center for Egyptian Women’s Legal Assistance) del Cairo e partner COSPE nel progetto My life back per i diritti delle donne, racconta la storia emblematica di Azza Soulemain, presidentessa del Centro, che non ha potuto partecipare al Festival perché non può uscire dal paese, come molti degli intellettuali e degli oppositori del governo egiziano, tecnicamente è “travel banned la presidentessa infatti ha subito ingiustizie, le sono stati confiscati beni ed inoltre è stata trattenuta in prigione, privata della possibilità di poter esprimere le proprie ragioni. Le problematiche in Egitto sono numerose e di vario tipo: dalle violenze alle ingiustizie, alla violazione dei diritti e all’assenza di libertà di espressione. Il paradosso è che proprio il Governo egiziano ha dichiarato che questo è l’anno della Donna. Il Governo tenta in tutti i modi di limitare le Ong, soprattutto quelle internazionali. A proposito ricorda il progetto “My Life back” per il quale si occupa di questioni di sanità per le donne, di mutilazioni genitali, sottolineando che il 90% delle donne ne è stata vittima. «Sono cose “normali” che vogliamo combattere», dice Nada. «Parliamo molto spesso di stato di diritto. Esiste: non è qualcosa di immaginario! Ma tutto ciò può costarmi la vita, perché parlando di queste cose sono vista come una spia!». Accenna anche ad un’altra problematica dilagante, ovvero le violenze sessuali contro le donne. Con la sua associazione lavora molto nella sfera privata, all’interno delle famiglie, le violenze più frequenti. Mentre, spiega, le violenze contro le donne che manifestano, che rivendicano i loro diritti, sono viste come giuste, come legittime, perché con una retorica anche in Italia molto ben conosciuta” se la sono andata a cercare”, recandosi nelle piazze per manifestare. Lepa Mladjenovic, attivista femminista serba e counselor per le donne vittime di violenza e lesbiche, co-fondatrice di “Women in Black”, network mondiale di donne che supportano la pace e la promozione della giustizia, sposta lo scenario sulle donne vittime di violenza nei campi profughi ai tempi della guerra civile. Una situazione che si ripete ancora oggi, con nuove ondate di profughi che arrivano in Serbia soprattutto da Iraq e Afghanistan, non potendo entrare entro i confini comunitari. Lepa affronta poi la questione delle spose bambine, prassi purtroppo ancora diffusa. Il 3% delle donne serbe ha dovuto accettare un matrimonio imposto ben prima di raggiungere la maggiore età, catapultate nel mondo degli adulti attraverso atti di violenza sessuale, divenuti poi una costante della loro vita matrimoniale.
Ha chiuso l’incontro Anna Pramstrahler, vicedirettrice dell’Organizzazione “D.i.Re”, la prima associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali gestiti da associazioni di donne e co-fondatrice dell’Associazione Casa delle donne per non subire violenza, ONLUS di Bologna. Ci parla del movimento “Non Una di Meno”, nato in Italia sull’esempio argentino, che l’8 marzo scorso ha preso parte allo sciopero generale delle donne, a cui hanno aderito ben 56 paesi: un segnale di solidarietà e di vicinanza tra donne, contro la violenza in tutti i suoi aspetti. «Il femminismo ha un linguaggio internazionale», conclude Anna, «i diritti delle donne sono universali, non sono dei privilegi».